Vini Veri 2019
Per chi beve, per chi sogna, per chi lotta.
Si è appena conclusa la sedicesima edizione di ViniVeri – vini secondo natura.
La prima senza Beppe Rinaldi, il signore gentile del Barolo, il vignaiolo custode di quella langa autentica, chiusa, tradizionale. Beppe, il guerriero cortese in tante battaglie mediaticamente scomode, il pensatore temerario sempre a fianco di quelle persone che fanno il vino come va fatto. Così tutto il consorzio, che nella sua filosofia e della sua visione è cresciuto, ha voluto che il suo ricordo accompagnasse l’intera edizione riproducendo su cartelloni e sul libro dei partecipanti il suo disegno a matita “il Gufo”. Un goffo e romantico gufo a indicarci ancora la strada da seguire.
Anche quest’anno la formula della manifestazione non cambia e all’apertura venerdì mattina le oltre 110 cantine sono già schierate nella grande Area Expo di Cerea. Sta per aprirsi una battaglia pacifica, una rivoluzione lenta. A pochi kilometri di distanza infatti sta per cominciare il Vinitaly, dove, sopra ogni cosa, saranno le leggi del mercato, domanda e offerta, labeling, packaging e story-telling a definire il buono, il sano, il commerciale.
A Cerea la rivoluzione consiste nel porre nuovamente al centro la terra, la vigna, l’uomo. Nel ricostruire gli equilibri, ancor prima sociali che naturali. Ed è un golpe organizzato: tutti i vignaioli, consorziati o invitati, devono seguire la Regola ovvero quelle poche “azioni che permettono a una produzione di esprimersi pienamente e raggiungere l’obbiettivo di ottenere un vino in assenza di accelerazioni e stabilizzazioni”.
Poche basi salde e tanta libertà espressiva. Un occhio al cielo e uno alla terra potremmo dire. Per vini veri, puliti e saldamente intrecciati al loro territorio e alla mano di chi li produce. Proverò a raccontarvi i miei preferiti di quest’anno, assaggio per assaggio.
Si dice che i friulani non perdano mai le loro radici, ma le allunghino quando costretti a lasciare la loro terra per andare a lavorare lontano. Questo è successo a Giuseppe Bensa che nel 1954, dopo tanti anni in Svizzera, sapeva esattamente dove tornare per comprare un pezzo di terra dove invecchiare. Un pezzo di quella collina goriziana che è casa sua: la Castellada appunto.
Generazioni si sono susseguite nella cura dell’azienda portando anche all’impianto più recente di circa 5 ettari di vigneto accanto ai 5 originali. Una cura sapiente delle varietà più vocate per quel lembo sfuggevole di Italia come Ribolla Gialla, Merlot, Pinot Grigio. Mi è arrivato dritto e preciso il loro Friulano 2013 lavorato in rovere fin dalla fermentazione e poi affinato un anno in tonneaux, un anno in acciaio e un ulteriore anno in bottiglia. Questa è la pazienza che ci vuole per bere un grande Tocai dai profumi vegetali ancora intatti, ma arricchiti da una punta speziata. L’ingresso in bocca è ampio, morbido, mentre la chiusura è molto asciutta, leggermente salina e citrica.
Uno dei produttori “storici” di ViniVeri, non richiede tante presentazioni. Basta bere i suoi vini per farsi un’idea precisa e affilata della sua visione di natura e di vino, semplice. Comunque, per chi non lo sapesse, siamo a Castorano, nel cuore del Piceno dove nel 2000 nasce, sulla scia di un richiamo familiare, la storia di Ashura: la sete atavica di Valter per il vino. Vini semplici dicevo, come il trebbiano Trebbien e l’esplosivo CoseCose, il suo Sangiovese da un piccolo appezzamento di oltre 60 anni (la terra e le mani di generazioni in un bicchiere). Meno antichi invece i suoi 300 acri di rosso Bordò, questo miracolo marchigiano di far crescere la Granaccia lontano da casa facendola sentire la principessa di quelle colline.
Una principessa dai mille cuori che battono anche nella cantina Clara Marcelli con il suo sanguigno Ruggine, così come in cima alla mitica collina di Cupramarittina nella cantina Oasi degli Angeli. Il loro Kupra, una romantica follia da 6000 antichissime piante ad alberello con una resa omeopatica. Un vino dalla trama spessa, damascata, che sembra parlare mille lingue straniere.
L’Etna naturale solo versante Nord? Mauro Cutuli dell’azienda Grottafumata non è di questa opinione e mi racconta i suoi vini mediterranei naturali prodotti proprio sul versante Sud del più maestoso dei vulcani. L’azienda già molto conosciuta per la produzione di olio extravergine, dal 2017 si è spinta nel settore della viticoltura e Mauro ha iniziato a prendersi cura di circa un ettaro di vigneto sul Monte Ilice.
Lato Sud, così il mare è più vicino e molte note salmastre risalgono le radici, si poggiano sulle foglie e arricchiscono i vitigni tradizionali ad alberello di queste zone: Catarratto, Nerello Mascalese e Cappuccio. Lato Sud che poi è anche il nome scelto per l’etichetta sia del rosso, che del bianco. Vini freschi, dai profumi intatti, intensi e balsamici. Vini aperti, diretti. Vini in viaggio.
Terra, Radici, Cielo. Queste le tre parole scelte da De Fermo per riassumere la loro visione armonica di agricoltura. Una vera azienda agricola la loro, che spazia dalla produzione di cereali, legumi e olio extravergine, a quella del vino su un ampio e storico vigneto. Tecniche biodinamiche sono applicate alla cura della loro terra, acquistata dalla famiglia De Fermo nel XIX secolo. E non si scherza con storie come queste, quando sono i secoli a parlare il vignaiolo si fa custode e si fa narratore. E per raccontare le sue uve De Fermo tradizionalmente sfrutta solo recipienti inerti di legno e qualcosa in cemento, per tutte le fasi della produzione.
Ho trovato in forma smagliante nell’annata 2017 il loro Pecorino Don Carlino, sale e limone ben prima dell’arrivo della tequila, e il loro Cerasuolo Le Cince, frutta fresca come se piovesse. Ma il vero capofamiglia rimane sempre Prologo, il loro Montepulciano famigliare e inteso, burbero e dolce. Un grande vino italiano. Infine, che dire del loro Launegild, Chardonnay impiantato nel 1926 e quindi oggi quasi centenario: un vino dove la terra marchigiana sembra scolpire e personalizzare uno dei migliori vitigni esistenti senza prevaricarlo, ma arricchendolo. Perché da ogni incontro si impara, si cresce, si cambia.
Montefalco. Quella piazzetta rotonda, quasi a fare da ombelico all’Italia. Francesco Mariani produce il suo vino in quelle verdissime colline umbre cariche un po’ di sole e un po’ di aria montana. I vini di Raina sono ruvidi, porosi, irregolari. Alcuni sono vini da bere chiedendosi solo perché non ne hai già un’intera cassa a casa, come il loro Rosso della Gobba, Sangiovese, un po’ di Montepulciano, il resto Sagrantino. Altri invece sono vini più rari, generalmente considerati “difficili” che però Francesco riesce comunque a comunicare in una chiave ultra-moderna come Il suo Sagrantino Campo di Raina. Tannino spinto come una cassa dritta in sound travolgente. Per i tipi più soul invece consiglierei direttamente il mio preferito, il suo Trebbiano Spoletino così morbido e persistente da fare un effetto plaid immediato in chi lo beve.
Questa incredibile realtà laziale è mia tappa obbligata a ViniVeri, perché ogni anno mi chiedo come sia possibile. Come sia possibile che una storia come questa esista. Siamo a Vitorchiano e in un antico monastero una vigna centenaria resiste curata solo dalle monache di clausura ed è per questo quasi inaccessibile a chi non faccia parte del monastero. Solo Giampiero Bea, presidente de consorzio e patron della cantina Paolo Bea, ha avuto l’onore di avvicinarsi e di sussurrare qualche piccolo consiglio enologico alle suore che comunque il vino lo fanno come stabilito da sempre, come “Il Signore comanda” potremmo dire.
Sorpresa di quest’anno è stata la possibilità di assaggiare, accanto al loro Coenobium Ruscum da Trebbiano, Malvasia e Verdicchio, il leggendario rosso Benedict che normalmente se ne volava oltre i confini nazionali ben prima dell’arrivo di aprile e della fiera. Una vigna mista in cui si è riconosciuto prevalentemente Sangiovese e Ciliegiolo, che determinano il colore rosso granato scarico nel bicchiere, ma che sicuramente nasconde qualche altra varietà, forse anche bianca. In bocca infatti dove prevale affatto la nota sanguigna e ferrosa del Sangiovese, ma piuttosto un’acidità importante e un tannino ruvido interessante.
Gioacchino Milana
Seconda realtà laziale tra i miei assaggi preferiti, i vini di Giancarlo Milana si bevono con l’immediatezza propria di quei vini buoni, che senti che fanno bene. Un’azienda storica dei Colli Romani che per lungo tempo si è dedicata alla produzione di vino da tavola sfuso per i bisogni della Capitale, fino al 2009 che vede invece l’inizio della valorizzazione delle diverse parcelle vitate e con la conversione al bio.
I vini di Milana sono tutti accumunati da una estrema e rigorosa pulizia che non prevarica però il carattere indipendente di ogni vitigno e di ogni annata. Mi è piaciuta molto la Malvasia in purezza 2601 dedicata alla data di nascita della madre perché questo era il vigneto più vicino alla casa e che quindi lei poteva curare quotidianamente. Al nonno invece è dedicato il Cesanese 0911 ottenuto dalle uve provenienti dal “cru” con le viti più vecchie dell’azienda impiantate attorno agli anni 50-60 proprio dal capostipite. Un rosso intenso e territoriale e dal gusto molto poco categorizzabile, speziato, caldo e molto persistente
A precipizio sul mare, nel primo entroterra di Bordighera, Tenuta Selvadolce conduce in biodinamica un vigneto di circa 7 ettari abbracciato a protezione dallo strapiombo da muretti a secco e nodulosi tronchi d’ulivo. Vitigni eroici e leggiadri, attaccati alla terra, ma anche così esposti al cielo, al maestrale, alle nuvole. Qui è dove nascono il loro Pigato, il loro Vermentino e la loro Granaccia.
Conoscevo già bene il loro Crescendo, Pigato in purezza affinato in acciaio, e pensavo fosse insuperabile, invece mi sono ricreduta assaggiandone la versione “riserva”, il Rucantù, affinato sulle proprie fecce in legno per 8 mesi e poi in bottiglia per altri 6. Un vino d’impatto francese, eleganza austriaca e riservatezza ligure.
Ma è stato il Rossese in purezza a farmi innamorare. Un piccolo cru custodito e mantenuto per selezione massale a 600 metri d’altitudine nel vigneto Ciapissa nel comune di Perinaldo. Il suo colore rosso leggero, la sua trama spessa, la nota vegetale e il coriandolo ne fanno un vino per pochi. Un vino per sognatori solitari che sappiano emozionarsi per il colore di un filo d’erba o per il profumo inatteso portato dal mare.
Assaggiando i vini di Francesco Massetti, vignaiolo a Colonella in provincia di Teramo in Abruzzo, ho non solo assaggiato vini molto particolari e ottimi, ma sono entrata a in contatto con la sua visione personale di viticoltura.
Parola d’ordine dei suoi vini è quindi concentrazione, sia dell’uva che del vignaiolo. Mi spiego, Francesco lavora con piante generalmente di età avanzata con una resa per ettaro anche al di sotto dei 25 quintali. Inoltre, ha scelto che le sue uve di Trebbiano e Montepulciano portassero a termine la maturazione fenolica del grappolo prima della vendemmia. Poi, producendo il Cerasuolo Cè per salasso, il suo Montepulciano Quarantacinque risulterà così ulteriormente concentrato. Un vino intenso che spinge ed esalta quelle note estreme di cacao, cuoio, liquirizia pur mantenendo una sua propria delicatezza e leggiadria in bocca. Concentrazione quindi, ragionamento, per vini pensati e studiati ma che nascono dalla sua grande passione per la vigna.
E’ il primo anno in cui questa cantina partecipa a ViniVeri. Un’azienda in Chianti creata dalla visione sensibile di Francesca Bidini per un’agricoltura attenta e rispettosa. Così al suo banchetto oltre agli ottimi bicchieri di vino ho passeggiato in Toscana grazie all’assaggio del suo ottimo olio e delle conserve. A mio avviso strepitoso è il loro Ago, un Chianti leggero, davvero come una volta perchè ottenuto dalle uve di una vigna vecchia salvata dall’incuria che oltre a Sangiovese e altri autoctoni contiene almeno un 10% di Trebbiano. Fresco, croccante, lievemente animale, buono.
La famiglia che ha fondato e gestisce questa micro-cantina slovena è pronta a stravolgere ogni nostra opinione riguardo il Pinot Grigio. Circa un ettaro vitato sulla ripida collina Rifnik dove resti di una precedente civiltà celtica e un reperto di epoca romana con un ornamento a tralcio di vite è stato ritrovato a testimonianza di un’antichissima coltivazione della vite in queste zone e ispirando così le etichette dei vini di Aci. Inoltre, la sensazione di lavorare e vivere su terre così intrise di storia ha favorito il progressivo abbandono di ogni pratica chimica, in vigna e in cantina, per abbracciare invece lo stile unico della loro agricoltura “organic anarchic”.
Il Pinot Gray è spaziale, già solo perché servito nel bicchiere attraverso un pezzetto della stessa pianta di vite incastrato nel collo della bottiglia. Un vino che vorrei avere l’occasione di riassaggiare con più calma.
Da diverse generazioni questa cantina a Bullas, a nord di Murcia, nell’omonima regione spagnola produce vini naturali e molto identitari. Nota di merito alle eleganti etichette mute che richiamano il caldo e la siccità di quella terra e che hanno portato il vitigno Monestrell, particolarmente resistente alla penuria d’acqua, a essere uno dei più diffusi. Ottima e rinfrescante la loro versione rifermentata con l’etichetta che richiama al gioco di parole tra Monestrell e Monos Tres, ovvero tre scimmie in spagnolo.
Ma la scoperta è arrivata con l’assaggio del loro Forcallat, un’uva rossa autoctona della Mancia e quasi scomparsa per via della scarsa carica di colore. Vinificato in bianco e in purezza Vina Enebro propone la versione ancestrale e la versione rifermentata della stessa uva per un gusto originale, per nulla aromatico e con una decisa nota affumicata.
Un ringraziamento finale va a tutto il Consorzio per la passione con cui ogni anno organizza e promuove la Fiera naturale più bella che c’è!