I Vigneri di Salvo Foti
Sono stata qualche giorno sull’Etna e ne sono tornata con più dubbi di quanti non ne avessi quando sono partita e va bene così: ogni viaggio degno di questo nome deve farti venire voglia di rimetterti in cammino. Tanti dubbi o meglio tante domande ancora in sospeso perché ho conosciuto un territorio potente e magnetico, ma sono certa di averne solo appena scalfito la superficie nera e rocciosa.
La campagna è stata l’aspetto più interessante, intanto perché non si può definire campagna un luogo dove le vigne si arrampicano fino ai mille metri sul terreno duro e sabbioso creato negli anni dall’incessante borbottare ed eruttare della montagna. Quanto meno non la campagna da cartolina ecco. Un terreno bollente, apparentemente arido ed inospitale, invece le prime a crescere sulla lava sono le ginestre, gialle, allungate ed esili, sembrano piccole bandiere al vento a segnalare la vita che riprende dove prima c’era solo fuoco e devastazione. Arriva poi tutto il resto, i lecci, i castagni, più in basso appunto la vigna, piantata ad alberello da contadini instancabili, spesso su terrazzamenti anch’essi in pietra lavica. Sull’Etna la campagna non c’è, ma è stata costruita “per gentile concessione della montagna”, disegnata e voluta dai suoi abitanti, consci della giornaliera precarietà della loro scelta.
Ed è proprio il rapporto di rispetto con la natura che ha fatto sopravvivere per migliaia di anni la viticoltura su queste pendici, un rapporto che si è però pericolosamente incrinato negli anni del boom del vino industriale e dell’espianto aggressivo dell’alberello a favore di impianti più facili da lavorare meccanicamente come la spalliera o il guyot. Per fortuna non tutto è perduto, infatti la passione e la visionarietà di alcuni custodi come Salvo Foti hanno invece permesso all’originale tradizione vitivinicola di sopravvivere, attraverso un lavoro giornaliero negli anni di conservazione e miglioramento.
Salvo Foti, classe 1962, dopo la laurea in enologia a Catania e alcune esperienze in Francia, forma la sua carriera collaborando con diverse aziende siciliane, ma soprattutto etnee che sostiene nella crescita e nel marketing proprio in quegli anni critici in cui il vino siciliano perdeva sempre più terreno a causa di una produzione volta più alla quantità che non alla qualità da parte di molte grandi aziende. Nel 2010 comincia il progetto I Vigneri, la sua azienda indipendente a cui oggi partecipano anche i figli Andrea e Simone.
La cantina di Milo è circondata da una alcune vigne giovani che Salvo ha piantato secondo lo schema dell’alberello dopo aver estirpato un precedente impianto a guyot. II vigneri infatti non punta solo alla conservazione del patrimonio vitinicolo antico, ma anche al reimpianto dell’alberello – a piede franco dove possibile – per favorire la longevità della pianta. In totale l’azienda si estende su circa 5 ettari divisi in vari appezzamenti tra il versante Sud-Est e il versante Nord dell’Etna.
Anche all’interno dell’azienda di Salvo si può toccare con mano la volontà di mantenere la vinificazione tradizionale di questa terra, infatti ogni anno, in maniera semi-clandestina, vengono prodotte 4000 bottiglie dell’etichetta I vigneri utilizzando il palmento tradizionale, datato 1840, ancora perfettamente funzionante. Proprio lì dove al momento della mia visita è posto il tavolo della degustazione saranno raccolte le uve appena vendemmiate e dove verranno pressate con i piedi. Da questa prima vasca in pietra il mosto scende naturalmente in una vasca sottostante dove avviene la fermentazione, al termine il vino viene fatto scendere ulteriormente di un livello per la svinatura e la torchiatura mediante l’azione del braccio di legno.
Nerello mascalese, Nerello cappuccio e po’ di Alicante (come viene chiamata qui la Grenache arrivata con la dominazione spagnola) questa la ricetta de I Vigneri, il vino che meglio incarna la filosofia enologica di Salvo volta a conservare alle pendici del vulcano la coltivazione delle varietà autoctone nella forma dell’alberello affinché le piante, libere di esprimersi, possano raggiungere facilmente anche i cento anni di età e dare uve sane e forti, complesse in aromi ed equilibrate nel gusto e nella tannicità. Una filosofia ed un territorio raccontati nel suo libro “Etna e i vini del Vulcano” e condivisa da altri vignaioli siciliani che si sono uniti nel consorzio creato da Salvo e che porta il nome de I Vigneri, l’antica maestranza dei viticoltori fondata a Catania nel 1435 al fine di educare i giovani alla coltivazione dell’alberello. Rispetto, lavoro e attaccamento al territorio che si traducono in un vino vibrante e roccioso, molto intenso ma altrettanto facile da bere.
Rocciosa anche la cantina di Salvo, tutta in pietra lavica su due livelli costruita durante i mesi invernali, quando la vigna riposa e si prepara al nuovo anno. Nel primo livello grandi contenitori in acciaio per la lavorazione dei bianchi, ma a guardar bene ci sono in terra anche tre anfore interrate quevri utilizzate per l’affinamento di alcuni vini rossi, nel secondo livello invece vasche più grandi sempre in acciaio per i rossi e infine la bottaia con barriques e tonneaux in legno di castagno utilizzate sia per il bianco che per il rosso a seconda delle caratteristiche del vino, date dall’andamento di ogni annata.
Durante il pomeriggio passato al palmento di Salvo ho assaggiato anche il bianco Aurora, dedicato ad una specie di farfalla autoctona dell’Etna oggi in via d’estinzione. Carricante e un piccolo saldo di Minnella, questo vino acidissimo e dalla bassa gradazione si fa perfettamente specchio delle condizioni climatiche del versante Sud dove lo scontro tra la montagna e il mare porta a piogge molto più frequenti rispetto al versante Nord che rallentano la maturazione delle uve. Affinamento solo in acciaio, Aurora è pensato come un vino d’annata ma è assaggiando l’annata 2013 che tutta la sua forza in potenza si rivela davvero per quella che è. Idrocarburo e acidità da Riesling, ossidazione leggera come firma di Salvo.
“Noi preferiamo lavorare in iperossidazione durante la fermentazione” mi spiega Andrea “così da ossidare tutto quel che c’è da ossidare e poi proseguire con un vino pulito che però porterà la memoria olfattiva dell’ossigeno che lo ha colpito in gioventù.”
A questo punto sto già assaggiando il rosato Vinudilice ovvero il vino del leccio (Ilex in latino significa leccio) in quanto proveniente dalla vigna più estrema di Salvo: 1300 metri d’altitudine, circondata da boschi di lecci, circa 10 varietà alcune sconosciute. Vinudilice nasce lì, da quelle uve miste raccolte tutte insieme e che ogni anno danno un vino leggermente diverso, ma sempre rosato. Un rosato che affascina per il coraggio di non voler somigliare a nessuno se non a sé stesso. Esistessero persone, oltre che vini fatti così.
Al termine di una serata perfetta, mentre mi allontano dal palmento di Salvo un fazzoletto di cielo infuocato attira il mio sguardo. E’ l’Etna che erutta dietro le nuvole che fino a qualche ora prima avevano portato litri e litri di pioggia (come vedete dal cielo minaccioso in tutte le foto). Avrei immaginato tanto rumore, invece è silenzio, appena un borbottio distante come un cenno a ricordare chi è che comanda lì. Mi torna in mente questa frase letta proprio sul libro di Salvo: “Esistono due tipi di vini: il vino dell’uomo e il vino degli uomini. Il primo ha una durata connessa con una persona. Il secondo dipenda da una civiltà, da un territorio e sopravvive al singolo uomo.”.
I vini di Salvo sono senza dubbio vini degli uomini, sintesi perfetta di quella invisibile stretta di mano tra l’umano e il vulcano.